La baita simbolo che piace ai padani
19 dicembre 2004
di Saverio Vertone
La bellezza di Torino è il frutto di una inconsueta combinazione tra la fioritura di monumenti della tradizione italiana e l´arioso impianto urbano del cosiddetto "assolutismo illuminato" di un´Europa settecentesca. A me pare che Torino sia un caso unico di conciliazione tra gli estri ondulati del barocco e i rigori neoclassici dell´illuminismo. Le altre città italiane non presentano lo stesso amalgama, perché in tutte l´ordinamento urbano è più antico e rivela la sua impronta medievale mentre qui la struttura geometrica del quadrilatero romano prefigura e asseconda l´esito finale del principato sabaudo. Lo straordinario fascino della capitale piemontese sta in questa delicata commistione di impronte. Che, dunque, va salvaguardata. Come? Certo non esibendo baite o isbe nelle sue piazze, o prospettando tetti in lamiera blu davanti alla eloquente eleganza dei palazzi di Juvarra. Anche se il sindaco ha annunciato la demolizione del mostro di Piazzale Fusi, dobbiamo chiederci come possano nascere e prosperare impulsi così barbari in una città e in una penisola che pure non sono la feccia dell´universo. Come mai un Paese che nei duemila anni della sua storia ha creato una impareggiabile concentrazione di bellezze urbane e rurali è poi riuscito negli ultimi cinquanta a sconciare questo patrimonio? L´alluvione del brutto, nella sua specifica versione italiana, è un tema a sua volta inutilmente alluvionato. E tuttavia, malgrado la comprovata inutilità delle ricorrenti esondazioni di rabbia, me ne consentirò una anch´io, accompagnandola però con una universale chiamata di correo. E´ inutile prendersela con i politici. Le colpe sono di tutti, e vanno attribuite a una diffusa attitudine culturale non contrastata da nessuno: il mito del Nord. Prima ancora che si scatenassero le tempeste della globalizzazione economica, l´Italia ha infatti conosciuto il tifone della "delocalizzazione estetica dei luoghi", complice l´intera popolazione, molto ben rappresentata dalla sua classe dirigente. La quale non si riduce al ceto politico ma comprende quella particolare selezione di imprenditori, professionisti, scrittori, che dovrebbero interpretare ed educare gli impulsi sovrani del popolo. Purtroppo questo ceto dirigente, già fragile, alla fine si è dissolto, lasciando il Paese sguarnito di fronte alle mutazioni economiche politiche e culturali del mondo. Per spiegarmi meglio mi rifarò a Sciascia e alla sua celebre metafora della palma che risale la penisola diffondendo dovunque un modello di comportamento civile inquinato dalla mafia. Nessuno si è accorto allora che mentre la palma saliva, scendeva l´abete creando un movimento incrociato, che portava dal sud la corruzione e dal nord la bruttezza In campo estetico il nostro incontro con la modernità si è tradotto nella venerazione dell’"altrove" e nell’adozione massiccia del passato altrui. Dalla Finlandia avevamo da imparare molte cose: non certo il modello lappone o vichingo di borghi e villaggi. Insomma, la ricchezza improvvisa ci ha dato alla testa. E così, nella generale baraonda, i padani hanno cominciato ad accampare origini longobarde o celtiche, mentre a sud molti si mettevano in coda per infilarsi in qualche genealogia normanna, sveva o, in mancanza d´altro, greca. Latino non è rimasto nessuno. In conclusione, mentre si esaltava il "sommerso" e non si pagavano le tasse, una colata lavica di ignoranza si abbatteva su tutto sradicando al suo passaggio verità elementari e consuetudini linguistiche, vale a dire il bagaglio di cognizioni che una nazione si "porta dietro" per non "andare sotto" nei momenti difficili. Ma nessuno cercava di impedire lo scempio. Come non si fermava la palma, così si incoraggiava la corsa dell’abete, per introdurre ovunque Baviere e Meclemburghi prêt à porter. Alla fine palma e abete hanno fatto dell´Italia una nazione transessuale, modificando la sua storia e la sua geografia: due cose assai più difficili da modificare del sesso. Adesso è inutile stupirsi se le baite (e non quelle nostrane, ma quelle dell´altro versante alpino) deturpano le piazze di una splendida città di pianura. Il peggio è già avvenuto, ma per evitare almeno che si ripeta bisognerebbe far sapere a Borghezio e ai suoi urbanisti che "baita" non è una parola celtica ma addirittura araba ( dal semitico beit= casa). Non servirà a molto, ma potrebbe essere un deterrente.!